Relazione per il Convegno “La Tradizione perenne. Le Vie di accesso al Sacro nell’età contemporanea”, Napoli, Castel Nuovo, 1° giugno 2013 (promosso dal sodalizio culturale “Il Cervo Bianco” e dall’Associazione “La Casa di Mercurio”) .
In merito al rapporto tra scienza della natura e scienza dello spirito e a quello tra pensiero dialettico e pensiero vivente, appare quanto mai opportuna una disamina dei capisaldi filosofici oltre che operativi a riguardo del Pensiero Vivente, Materia Prima dell’opera di trasformazione interiore dell’asceta moderno, rintracciandone inoltre i prodromi e i presupposti nelle discipline e dottrine dell’Oriente in particolare quelle indo-tibetane con particolare riferimento al Tantrismo Śivaita e al Buddhismo esoterico del Vajrayāna soprattutto quello delle sei dottrine e del grande sigillo risalenti al Sampradhāya: Tilopā, Nāropā, Marpa e Milarepa. Così come è stato rilevato, gli archetipi della Scienza dello Spirito antroposofica vanno rintracciati nel Goethe scienziato con la concezione dell’ Urphänomen e negli sviluppi che ebbe nell’opera di Rudolf Steiner in particolare nelle opere “filosofiche” : Introduzione alle opere scientifiche di Goethe, Verità e Scienza, Gnoseologia di una concezione goethiana del mondo e la sintesi definitiva Filosofia della libertà. In particolare la tematica del Pensiero Vivente avrà un grandissimo sviluppo ed evoluzione nella opere di Massimo Scaligero. Tuttavia la tematica del pensiero dell’osservatore come centro della scienza come della manifestazione del fenomeno appare già in Aristotele in particolare in un passo del De Anima in cui lo Stagirita sembra a chiare lettere anticipare le tematiche goethiane. Ma veniamo al passo in questione in cui Aristotele parla dell’intelletto attivo: «…c’è un intelletto analogo alla materia perché diviene tutte le cose ed un altro che corrisponde alla causa efficiente perché tutte le produce, come una disposizione del tipo della luce, poiché in un certo modo anche la luce rende i colori in potenza colori in atto. E questo intelletto è separabile, impassibile e non mescolato, essendo atto per essenza…, ora la conoscenza in atto è identica all’oggetto, mentre quella in potenza è anteriore per il tempo nell’individuo ma da un punto di vista generale non è anteriore neanche per il tempo e non è che questo intelletto talora pensi e talaltra no . Quando è separato è soltanto quello che è veramente, e questo solo è immortale ed eterno (ma non ricordiamo perché questo intelletto è impassibile mentre l’intelletto passivo è corruttibile)e senza questo nulla c’è che pensi» (De Anima Γ 5; 430 a10 – 430 a25).
Qui è evidente che al di là dello status della realtà esterna, lo spirituale autentico, è pensiero in atto, è esso la vera fonte della conoscenza umana e non un mondo esterno indipendente dal Soggetto pensante. Ma veniamo alla gnoseologia dello Śivaismo del Kaśmir, una corrente spirituale fiorita in India verso la metà del primo millennio d.C. e che raggiunse il suo apogeo a cavallo dell’anno mille, con una costellazione di maestri di livello assoluto. Citiamo solo i più importanti ai fini del nostro argomento, soprattutto quelli della scuola Spanda (Vibrazione) e della Pratyabhijñā (Riconoscimento). L’opera in cui il tema della conoscenza nella prospettiva analizzata, emerge per la prima volta in forma quanto mai chiara, sono Le strofe sul riconoscimento del Signore (Īśvarapratyabhijñā kārikā)[1], composte dal maestro Utpaladeva, nel 10 sec. d.C., oggetto di due acuti commenti da parte del maestro Abhinavagupta, sistematore definitivo, insieme al discepolo Kşemarāja, dello Śivaismo, di cui vedremo alcuni passi importanti.
Ma entrando nel vivo notiamo subito in Ī.P.K. I,7;2: «La connessione (dei fenomeni) è possibile se attraverso i distinti e multiformi atti di coscienza, gli enti permangono nel medesimo soggetto conoscente», oppure in Ī.P.K. I,7 ; 3v (v. sta per vŗtti, il commento, dunque il commento alla 3): «…La connessione degli oggetti è concepibile solo come manifestazione unitaria e simultanea….» vale a dire che solo all’interno di una manifestazione unitaria e simultanea, cioè, in un Uni-verso, è concepibile un qualsiasi tipo di relazione tra fenomeni ma un Uni-verso non potrebbe manifestarsi che per un medesimo atto di conoscenza operato dal medesimo soggetto conoscente. Se i fenomeni fossero separati o in stretta successione (vale a dire, se si manifestassero semplicemente uno dopo l’altro, cioè in modo che, quando ne compare uno, tutti gli altri non ci sono affatto, quindi in maniera istantanea) la relazione semplicemente non si darebbe. Con particolare riguardo alla scienza, è indicativa la Ī.P.K. I,7 ;4v : «La relazione di causa-effetto e la sua fondazione sono attuate dalla percezione e la non percezione che entrano in rapporto attraverso lo stesso soggetto conoscente. La percezione e la non percezione che non fossero in tale relazione sparirebbero dopo aver fatto conoscere uno dopo l’altro il relativo oggetto ma non mostrerebbero alcuna sorta di dipendenza reciproca», questo significa che la relazione di causa ed effetto è una relazione di pensiero in quanto è un soggetto osservante che pone in relazione due eventi in sé separati e che tali rimarrebbero senza un osservatore cosciente. In definitiva per tali pensatori un oggetto separato dalla conoscenza cosciente di esso non è concepibile cioè «non c’è oggetto separato dalla conoscenza. Nella coscienza, infatti, non c’è differenziazione creata da questo o da quello (cioè da qualsivoglia causa che non sia la stessa coscienza)» [2], l’oggetto è tale solo per una coscienza che lo rende ciò che esso è. Questo discorso richiama alla mente le osservazioni che fa Rudolf Steiner nell’ Introduzione alle opere scientifiche di Goethe, in cui osserva come solo nel pensiero possano manifestarsi i nuclei ideali[3], fenomeni primordiali degli altri regni naturali e di come nell’idea venga a realizzarsi il colloquio risolutore della Natura con se stessa[4]. Fondamentale a questo punto è altresì approfondire la tematica del conoscere inteso come consapevolezza luminosa. Infatti, Utpaladeva in Ī.P.K. I,5;2 «se non fosse essenzialmente costituito di luce, l’oggetto resterebbe non illuminato(leggi conosciuto)come in precedenza, né la luce può essere qualcosa di separato dall’oggetto, in quanto l’essenza dell’oggetto è proprio la luce». Ancora più interessante è il commento a questo passo: ovvero «se il cosiddetto soggetto conoscente non fosse essenzialmente costituito di luce, per lui(per il soggetto),(ad es.) questo vaso resterebbe non illuminato(non percepito). Infatti la capacità dell’oggetto di essere illuminato è luce….», cioè se la capacità conoscitiva del soggetto non fosse autoluminosa, l’oggetto resterebbe non conosciuto tanto nel momento della percezione quanto in quello del ragionamento che su essa si fonda.
Oltre poi alla facoltà conoscitiva del soggetto, la stessa percepibilità dell’oggetto deve essere luce, altrimenti nessuna conoscenza o apprensione sarebbe possibile. Il senso ultimo è che questa luce, questo fulgore noetico è presente tanto nel soggetto che conosce quanto nell’oggetto ed in genere nel conosciuto o conoscibile, essa è la materia prima dei due poli del conoscere. La materia, cioè il massimo dell’alterità e dell’insenzienza, è luce caduta ed inversa, in una parola è tenebra, esattamente il contrario della luce, o meglio il suo negativo. Quando si incontrano la luce del soggetto e la tenebra della materia sorgono forme e colori della natura, un po’ come nella teoria dei colori di Göethe, in cui i colori nascono dalla commistione di luce e tenebra. Analogamente in Persia, più o meno nello stesso periodo dello śivaismo in Kaśmir, il filosofo e mistico islamico Suhwarardī, nella sua Filosofia dell’Illuminazione[5], con la dottrina del barzakh (letteralmente barriera) richiama ad un ordine simile di idee: in sintesi i corpi sono concepiti come barriere generate da una progressiva alterità, dispiegantesi a partire dall’Assoluto, la Luce di tutte le luci, procedendo con l’Intelletto primo, e via via manifestandosi in tutte le gradazioni, passando per tutte le gerarchie intellettuali e corporee fino ad arrivare alla terra come estrema alterazione del Principio.
Restando in Persia va detto che tali tematiche erano già state potentemente anticipate nella dottrina di Zarathustra 1600 anni prima. Secondo quel insegnamento la Daēnā, l’Io trascendente dell’Uomo, è figlia di Spenta Aremaiti, l’arcangelo della Terra vista nel suo stato spirituale e trasfigurato (menok), infatti in Yasna XXX, 9, si legge un’invocazione molto suggestiva in merito: «Possiamo noi essere fra coloro i quali opereranno la Trasfigurazione della Terra», fatta della sua stessa sostanza luminosa e autocosciente (Hvareno)[6] , la stessa del pléroma in cui vive il Signore Pensante Ahura Mazdāh. Ora se si considera che etimologicamente daēnā è l’omologa del sanscrito dhyāna (meditazione, visione, dalla radice dhī : vedere), si comprende in che ordine di idee ci troviamo. Potremmo citare, lungo tale medesima direzione ideale, anche alcuni testi del Vajrayāna, come il Guhya Samāja, che secondo una processione simile, concepiscono la realtà come il dispiegarsi delle differenze, a partire dalla Luce immacolata, autocosciente ed increata, l’Assoluto, che genera, al suo interno una scossa (kşobha) e, percorso da un brivido, si rifrange nei quattro o cinque colori archetipici corrispondenti ai quattro o cinque Buddha Archetipo (Âdibuddha), radici di tutte le realtà create (concepite speso in termini di pentadi a tutti i livelli, sia cosmologico-ontologico che soteriologico), comprese passioni e virtù umane. Ad un tale ordine di idee richiama con vigore un saggio molto importante di Massimo Scaligero proprio sulla luce[7]; «La luce è l’essere segreto delle cose e degli enti. La materia essenziale delle cose è la luce… La materia che appare è luce caduta: il cadavere della luce…» [8], «Le cose illuminate dalla luce del Sole sono le cose sul punto di riaccendersi della luce originaria» oppure «…la tenebra in cui la luce sparisce non è più la tenebra bensì il giuoco della luce per l’anima, la quale nell’occhio afferra i colori e le forme del mondo, la struttura dell’essere» e ancora «Ogni forma di cosa o ente è la materia che tende a risorgere come luce e perciò si dà come idea: che non si ha la forza di cogliere come idea, perché l’idea è avuta solo come astrazione …… Le cose, il mondo, gli enti appaiono, perché si vestono di luce ma questo vestirsi è l’incontro della luce dell’anima mediante l’occhio, con la luce della materia (la luce nera): ricostituirsi della luce prima come fatto della coscienza a cui manca la coscienza della presenza del principio di luce» [9], infine «È il risorgere che l’uomo non incontra direttamente con la luce del volere, bensì con la mediazione dei sensi in cui la luce del volere è inversa: con il moto della natura: onde quel risorgere si traduce in sensazione, in rappresentazione. Che è sempre il morire della luce»[10], i primi capitoli sono un vigoroso richiamo a queste verità riconosciute già da quei venerabili maestri dell’India.
In sintesi, il pensiero ordinario dell’uomo, è il cadavere della luce di cui parlavamo, è la luce priméva riflessa dall’organo cerebrale, la quale fa sì, in tal modo, che l’uomo sia cosciente sulla terra e soprattutto libero, libero cioè da rivelazioni dirette che se da un lato gli eviterebbero l’errore, dall’altro coarterebbero la sua libertà. Questo è anche il motivo di quel processo di individuazione prima (nascita del concetto e della scienza esatta) quindi di agnosticizzazione del sapere e della vita cui si assiste oggi, vale a dire il vero senso della morte di Dio, ciò cui accennò Plutarco di Cheronea parlando della morte del grande Pan, tema ripreso poi da Nietzsche e profeticamente annunciato nello Zarathustra, quasi manifesto della modernità dispiegata: perdere gli appoggi, le certezze, le rivelazioni dall’alto, l’uomo rinchiuso nell’apparenza disanimata della natura, capace di concepire un mondo unicamente dominato dalla necessità della materia ma perciò stesso libero di decidersi per la risalita ma esposto viepiù alla possibilità di perdersi in una misura fino ad ora sconosciuta: «beati coloro che hanno creduto senza vedere» (Gv.20, 29).
La luce che si dona e muore come tenebra per creare il gioco del conoscere umano, la palestra del sensibile, la scuola del pensare oggettivo, la via dello svincolamento dall’antica rivelazione, che è anche l’antica natura lunare dell’uomo. Tale processo va ora compreso e afferrato dall’individuo che sia capace di vera autocoscienza, vale a dire l’uomo che ora non usi più il pensiero per passare da una rappresentazione ad un’altra, ma si “intrattenga” con esso (come dice Scaligero ne L’Uomo Interiore), per risalire dal riflesso alla vis originaria, che sia in grado di concepire quella ascesi del pensiero che nessun filosofo tematizzò né attuò. Ma per risalire occorre che nel pensiero riflesso sia già presente la forza originaria, altrimenti nessuna operazione potrebbe sperare di riuscire. Non esiste, come abbiamo visto, un mondo esterno indipendente dagli spettatori. Un mondo può nascere quando vi è qualcuno che lo renda tale, che lo unifichi dandogli coerenza noetica. Ma il pensiero umano può fare ciò nella misura in cui in essenza è tutt’uno con il pensiero che sta alla base della realtà, certo nella sua forma inversa, ma questa forma inversa è possibile perché la Luce stessa si dà in tale forma, la morte della luce è possibile perché la Luce acconsente a donarsi alla categoria più bassa della realtà per l’esperire umano, è una morte per una vita più alta. Anche su tale argomento il nostro parallelo Oriente-Occidente trova spunti interessanti.
Già nelle Spanda Karikā di Kallata, si legge al verso 41 del terzo capitolo, questo passo notevole: «Ciò da cui, in (lett. per) chi sia impegnato in un pensiero, può nascerne un altro, è definito schiudersi (unmeşah)…» e nel commento: «Quella realtà dalla quale, in uno che è intento in un pensiero, nasce improvvisamente un altro pensiero, questo è da considerarsi lo schiudersi, la causa del pensiero. Ma questo sia autonomamente scoperto dall’asceta e sperimentato come ciò che pervade i due pensieri».
Ancor più netto è Abhinavagupta: «Anche nel caso di sintesi(sott. concettuali) come ad esempio quando si dice <<questo qui è un vaso>>, si deve parlare (lett.pensare) di pensiero discorsivo (leggo anche riflesso). Tuttavia, in quelle entità sintetiche (i concetti), risplende quanto mai evidente, improvvisa come un lampo, la potenza di conoscenza (del Signore, il Logos), di esse i maestri parlano come del mezzo eminente, la strada per eccellenza, il primo passo sulla via verso il Supremo»[11].
Vuol dire che nel concetto è presente il Logos stesso, occorre riconoscere e sperimentare direttamente ciò, la filosofia come scienza del pensato va abbandonata per far posto non tanto ad una scienza del pensiero, quanto ad una esperienza diretta del pensiero vivente, ed al limite, del Logos, esperienza che nessuna istituzione religiosa può fornire e di cui neanche parla.
Ma da un punto di vista operativo, per chi sia un tantino addentrato in tali temi, potrebbe sorgere la domanda su quale sia il rapporto tra quest’approccio e la pratica della Kuņdalinī di cui si parla nella sapienza e disciplina yogica Indo-Tibetana.
La risposta può esse ricercata nella stessa pratica così come la troviamo ad esempio nello Yoga tibetano. Infatti nei testi delle Sei Dottrine fatti risalire al maestro Tilopā, quando si parla dalla pratica del Calore Vitale(Tummō), la fiamma attizzata nel Centro vitale della base, grazie al respiro luminoso-calorico è fatta ascendere nel canale di mezzo, salire verso i centri cerebrali e in un’operazione che viene detta “mungitura progressiva della mucca celeste” fa gocciolare il latte della conoscenza (bodhicitta) verso il basso. Quindi abbiamo un movimento ascendente ed uno discendente, il primo fa ascendere la Forza verso i centri cerebrali, quindi in un certo senso occidentalizza lo Yogi, che a questo punto si centra nella testa e da qui discendendo può raccogliere i frutti di tale pratica che consistono, tra gli altri, appunto nella capacità di vedere nel pensiero e nelle percezioni ordinarie il lampeggiare della Forza originaria. A tale proposito delle osservazioni di Massimo Scaligero in merito possono risultare illuminanti[12]. Egli infatti rileva che costituzionalmente l’uomo orientale è centrato nei centri nervosi della volontà, quindi nel basso ventre e che quindi l’operazione preliminare, per lui è quella di portare la coscienza nel capo per poi operare la ridiscesa della luce. Viceversa, l’uomo costituzionalmente europeo-occidentale è già centrato nei centri superiori del capo anche se nella forma riflessa e cerebrale e addirittura si spinge a dire che nei rari pensatori e autentici scienziati la Kuņdalinī è in un certo senso già, costituzionalmente ascesa e che quindi, per un Occidentale, tentare di far ascendere la Kuņdalinī dal basso è un errore metodologico oltre che un non senso. Occorre viceversa risvegliare la Kuņdalinī nella testa dove essa riposa come pensiero riflesso ma in grado nei rari momenti della sua accensione, seppur inconsapevole, di rendere l’uomo capace di costruire macchine straordinarie e penetrare filosoficamente e artisticamente il cosmo. Ma liberare la forza nella testa vuol dire liberare preliminarmente la pura attività nervosa, quella elettrica per intendersi, dai processi ritmici e metabolici che ordinariamente invadono i nervi e quindi la coscienza, quindi separare le forze del pensare da quelle del sentire (ritmo) e da quelle del volere (ricambio e arti), che mescolate si manifestano come istinti e passioni incontrollate ma che ricondotte alle loro sedi e quindi liberate dalla loro commistione ritornano forse divine. Quindi in un momento successivo, scioglierla anche dai processi nervosi puri. A questo punto può essere attuata la discesa della Luce, a partire dal centro eterico della testa, situato tra la ghiandola pineale (pensiero-percezione) e la ghiandola pituitaria (volontà), prima nel centro della gola dove essa viene realizzata come Vita, quindi nel centro del Cuore dove è realizzata come Amore-calore, in quella che può essere definita una sorta di pentecoste dei nuovi tempi. Quindi non esiste alcuna opposizione tra pratica occidentale e pratica orientale, c’è invece una continuità e complementarità ed anzi si potrebbe parlare di una preparazione orientale alla via occidentale. La salvezza non va cercata oramai in riti o dottrine che appartengono al sentire del passato, occorre comprendere ed afferrare il processo storico-cosmico che ha portato alla civiltà attuale e portarlo a compimento; tutta la storia dell’uomo fino ad oggi aveva come fine questo evento che non è necessario, può anche non avvenire poiché dipende dalla sua libera scelta attuarlo o meno. Tale cambiamento radicale passa attraverso il pensiero, che è la strada maestra, come già intuirono i filosofi indiani.
Come dice Rudolf Steiner: «Il fondamento del mondo si è effuso completamente nel mondo, non se ne è ritratto per dirigerlo da fuori, lo muove dall’interno; non gli si sottrae. La forma più alta nella quale esso si manifesta nella realtà della vita ordinaria è il pensare e col pensare l’individualità umana… Esso (il Fondamento) non vive come volontà in qualche luogo fuori dell’uomo ha rinunziato ad ogni volontà propria per far dipendere ogni cosa dalla volontà dell’uomo. Affinché l’uomo possa essere il suo proprio legislatore, ogni idea di determinazioni universali extra-umane deve essere abbandonata» [13]. Queste parole lapidarie, non significano, però, un ritorno all’uomo misura di tutte le cose di protagorea memoria, non è di relativismo che si tratta, esse dicono che il Fondamento del mondo ha rimesso nelle mani dell’uomo il suo proprio destino, la scelta tra la autentica libertà e la sua contraffazione; certo, l’uomo può essere legislatore di sé stesso anche in senso nefasto e negativo. Tuttavia nel caso l’uomo si decida per l’autodeterminazione in senso pieno e positivo, l’attuazione di tale scelta è subordinata da Steiner alla realizzazione degli assunti di una filosofia della libertà rigorosa e consequenziale.
Secondo questo insegnamento la premessa indispensabile affinché vi sia un uso reale e corretto della libertà, consiste nella realizzazione del pensiero libero dai sensi, cioè che si liberi il pensiero dal supporto cerebrale, solo così l’uomo può agire realmente partendo dall’Io e non dalla sua immagine egoica, vale a dire il suo riflesso nell’anima (psiche). Invero oggi dalla corporeità risuonano gli impulsi del passato in cui parlano forze avverse all’uomo che ne paventano la reale liberazione, perdendo, esse, in tal modo il loro dominio su lui. Per conoscere davvero il corpo occorre prima non farsene condizionare, poiché, poi, di tale condizionamento è il corpo stesso a patirne.
Questa vera e propria conversione del pensare, va attuata a partire da quel pensiero che si è legato alle categorie del misurabile e quantizzabile, al fine di rendere possibile una scienza del mondo fisico, cioè occorre tentare di percepire il fluire del pensiero nell’atto di pensare gli oggetti, oggettivare il pensiero stesso, fare del concetto stesso oggetto di pensiero. Solo dopo un lungo tirocinio nell’arte di contemplare il concetto, che non è ancora il pensiero liberato, può accadere come evento inaspettato, un’ inversione di prospettiva, si percepisce non più il riflesso, ma il fluire stesso della luce incidente verso l’organo cerebrale, un evento che può cambiare radicalmente la vita di un uomo.
Questa è l’operazione cruciale dell’asceta moderno, senza tale strumento del pensiero vivente, nessuna vera vita spirituale è possibile, considerando che qualsiasi altra via va comunque considerata col pensiero riflesso, quindi filtrata da quello strumento dell’antica natura che è il cervello.
Da quel momento in poi si comincia a percepire la propria individualità indipendentemente dal corpo e altresì a considerare la perennità di un insegnamento che ha assunto varie forme in conformità ai tempi e che ora si prospetta finalmente come conquista cosciente dell’uomo.
Nelle antiche ascesi, infatti, l’uomo doveva rinunciare alla propria individualità terrestre, trarsi indietro o in alto in uno spirituale extraterrestre. Nell’attingere alla sua essenza doveva rinunciare alla coscienza ordinaria e al pensiero discorsivo che corrispondeva ad una coscienza più attutita di quella attinta fuori dalla Terra.
Nella via moderna avviene proprio il contrario, non si tratta più di ritrarsi ma di andare al di là, potenziare la coscienza di veglia servendosi del pensiero riflesso, al cui livello l’uomo moderno è più sveglio, potenziare tale coscienza per superarla, in passato la si abbandonava ma non la si superava poiché l’uomo non era ancora giunto al punto estremo dell’esperienza terrestre, ora vi si deve passare attraverso perché tale punto è stato superato, occorre liberare una forza che è la più alta perché legatasi alla categoria più bassa del reale, quella corrispondente alla civiltà della macchina ed al mondo perfettamente quantizzabile ma agnostico e materialista, mondo, questo, che neanche i pensatori dell’India conobbero, questo lascia intravedere anche la differente impostazione pratica-operativa se non speculativa tra il metodo di quei maestri ed il metodo adatto all’uomo del presente. E’ chiaro che da questa prospettiva anche una filosofia della storia o storia pensata filosoficamente, acquista un valore nuovo e coerente, come il percorso dell’uomo verso la libertà.
Ma tale possibilità del pensiero, quella effusione del fondamento del mondo di cui ha parlato Rudolf Steiner, non è una cosa che per una sorta di processo meccanicistico e necessario, ad un certo punto, l’uomo si è trovato ad avere.
In un momento o epoca ben precisa il fondamento del mondo si è riversato nell’umano per donare all’umano la forza di vincere la tenebra con le forze della tenebra stessa e non fuggendo da essa, in quel momento il fondamento del mondo ha pervaso la terra stessa col lievito della resurrezione, la forza viva che prima agiva dall’esterno ora è venuta ad abitare in mezzo a noi. Il pensiero da quel momento in poi può essere salvifico. Non è un caso, infatti, che da un certo periodo in poi anche le filosofie dell’Oriente assumano nuove forme, forme che rivalutano decisamente il pensiero individuale come strumento soteriologico, si pensi oltre allo Śivaismo, alla filosofia del Buddhismo, con la nascita di scuole di logica (Vasubandhu e Dharmakīrti su tutti) e i movimenti della Sola mente (cittamatra o Yogacāra), con la dottrina della Coscienza deposito (ālaya vijñāna), il suo manifestarsi come pensiero discorsivo e di una conseguente aśrāya pāravŗtti, l’inversione del supporto cioè l’inversione noetica dell’abituale modo di conoscere con l’attingimento al piano della Coscienza Immacolata (vimala vijñāna), e quello del Madhyamaka di Nagārjuna che riduce all’assurdo tutte le posizioni dialettiche sulle realtà ultime, mostrando quindi l’inanità da un lato del pensiero riflesso, ma dall’altro il suo potere di togliersi come tale per attingere al Vuoto, il cui primo viatico è proprio la mente resa luminosa e trasparente (prabhāsvara). Del resto la dottrina buddhista dei Bodhisattva che rinunciano al Nirvana per tornare sulla terra in soccorso degli esseri indica un amore per la terra che la storia del pensiero orientale e soprattutto indo-tibetano precedente non conobbe se non in maniera sporadica. L’Occidente dal canto suo seguì una via differente, seguì una via che potremmo definire dell’immanenza, la via che l’avrebbe portato attraverso la filosofia ed il metodo sperimentale alla scienza del mondo fisico, ad un esperire esatto e preciso allato di una compiuta coscienza di veglia e di un libero arbitrio totalmente dispiegato a causa o anche grazie ad una visione sempre meno condizionata da antiche rivelazioni, cioè, agnostica.
Tuttavia anche questo stato di cose non può e non deve restare lo stesso per sempre. È tempo che in un certo senso l’Oriente e l’Occidente si riuniscano, cioè che l’Occidente ritorni, arricchito dall’esperienza della scienza esatta della natura, alla antica attitudine alla ascesi rigorosa di cui è portatore l’Oriente, alla abitudine allo yoga, e tuttavia con un metodo nuovo, adatto alla costituzione interiore dell’uomo Occidentale, il più evoluto in quanto è il tipo che è disceso più in basso, quindi più forte e pertanto più vicino alla risalita, è lui che ha il compito storico di traghettare l’umanità verso un nuovo corso della storia e di donare al resto del genere umano il risultato della sua evoluzione.
Note
[1] Edito da Raffaele Torella, The Īśvarapratyabh. Kārikā of Utpaladeva with the autor vŗtti, Serie Orientale vol. LXXI, Is.M.E.O. 1994 (oggi Is.I.A.O.).
[2] Abhinavagupta; Paramārthacarcā, v.2.
[3] Introduz. alle op. scientif. di Goethe, cap. XVI, p. 234-235, ed. Antroposofica.
[4] Linee fondamentali di una concezione goethiana del mondo, in Saggi filosofici, p. 100, ed. Antroposofica.
[5] Suhrawardī; The philosophy of illumination; John Walbridge, Hossein Ziai; Islamic translation series; Brigham Young University Press; Provo, Utah 1999.
[6] Henri Corbin, Corpo spirituale e Terra celeste, Adelphi, Milano, 2002; Pio Filippani Ronconi, Zarathustra e il Mazdeismo, Irradiazioni, Roma, 2007.
[7] Massimo Scaligero; La Luce, Introduzione all’immaginazione creatrice; Roma 2005, Edilibri.
[8] Scaligero Ibid. , cap. I pg. 3
[9] Scaligero Ibid. , cap. I pg. 4
[10] Scaligero Ibid. , cap I pg. 5
[11] Abhinavagupta; Ī.p.Vimarśinī ; Kashmir series of texts and studies; vol. 22; pag. 257-258.
[12] Kundalini d’Occidente; Zen e Logos.
[13] Rudolf Steiner; Linee fondamentali della concezione goethiana del mondo, in Saggi filosofici, editrice Antroposofica, pag. 108-9.